Largo al principio di autoresponsabilità: finiti gli studi anche i figli devono trovarsi un lavoro

Il diritto si evolve col mutare dei tempi e della coscienza sociale, la Cassazione passa da  “il diritto a ogni diritto” al concetto di “dovere”.

Con la sentenza n. 17183/2020 la Suprema Corte ha  nuovamente posto il principio dell’autoresponsabilità al centro delle questioni afferenti il diritto di famiglia, prima facendone il cardine nel vivace tema del diritto all’assegno divorzile, ora richiamandolo per giustificare un doveroso cambio di rotta sull’annosa questione del mantenimento dei figli maggiorenni ma non economicamente autonomi.

La Corte, dopo un’articolata disamina dell’obbligo dei genitori di mantenere di figli sino al raggiungimento della loro indipendenza economica, sottolinea come la tale pretesa  dopo i diciott’anni non possa protrarsi oltre ragionevoli limiti di tempo e misura; diversamente, si realizzerebbero veri e propri fenomeni di “parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”.

Gli Ermellini pongono l’accento sulla funzione educativa del mantenimento, per il quale si devono necessariamente considerare il tempo necessario per il completamento degli studi e l’inserimento nel mondo del lavoro, nonché le condizioni economiche dei genitori, per cui non è ammissibile una durata sine die di tale obbligo.

La Corte richiama, quindi, il principio di autoresponsabilità, quale espressione  del nuovo sentire sociale che sostiene l’evoluzione del diritto vivente: se prima si poteva ritenere che il figlio fosse da considerarsi economicamente autonomo soltanto dopo aver trovato un’occupazione corrispondente alla propria professionalità, oggi non è più così.

La Corte evidenzia che il mutato contesto del mercato del lavoro, connotato spesso dalla perdita dell’occupazione con il regresso a una situazione di mancata autonomia – che di questi tempi colpisce anche i genitori – si traduce nell’impossibilità di riconoscere un’indipendenza economica esclusivamente correlata a un’occupazione  corrispondente alla professionalità del giovane.

Per l’effetto, l’attesa di questa occupazione, con il contestuale rifiuto di lavori diversi rispetto alle aspettative, sono indici di comportamenti colposamente inerziali, dai quali non è possibile far permanere il dovere di mantenimento in capo ai genitori.

E’, quindi, esigibile che il figlio una volta completato il proprio percorso formativo, liceo, laurea triennale o magistrale, nei limiti temporali previsti dalla durata ufficiale degli studi, debba attivarsi entro un tempo mediamente breve per il reperimento di un’occupazione che privilegi l’aspetto dell’autonomia economica, eventualmente in attesa di trovare il lavoro maggiormente confacente rispetto alle competenze acquisite, senza poter pretendere che siano i genitori ad adattarsi a qualsiasi lavoro in sua vece.

La Corte, infine, richiama gli effetti del raggiungimento della maggiore età, con la quale si acquista la piena capacità d’agire e lavorativa, intesa quest’ultima come l’adeguatezza – salvo condizioni particolari – a svolgere un lavoro remunerato, evidenziando che, qualora il giovane opti per le attività di studio, questa opportunità offerta dai genitori debba essere colta con profitto.

E’, altresì, interessante la riflessione su un potenziale “abuso del diritto” per l’obbligo di mantenimento a favore di un figlio maggiorenne, inosservante ai doveri di formazione e ricerca di un impiego, il quale irragionevolmente rifiuti qualsiasi proposta lavorativa, poiché non ritenuta consona alle sue ambizioni.

Viene così in rilevo il concetto di “dovere” rispetto all’assistenzialismo, troppo spesso dilagante, anche se dovranno sempre essere riconosciuti i dovuti temperamenti in ragione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, considerata la cronica difficoltà dei ragazzi a inserirsi nel mercato del lavoro.

 

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